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domenica 24 giugno 2012

San Gennaro

La storia
Le Parenti
La processione
La cerimonia
L'arte e il tesoro
I doni dei sovrani



La Storia
di Mimmo Liguoro
San Gennaro, una lunghissima storia, punteggiata di avvenimenti e vicende spesso in bilico tra devozione e pregiudizio, fede e incredulità, passione e scetticismo. Ma in ogni momento, legata a filo doppio alla storia della città, fino a una fortissima identificazione tra il Santo protettore e le pulsioni psicologiche di un popolo periodicamente minacciato da catastrofi naturali ed eventi storici. Gennaro, Vescovo di Benevento, decide di compiere un viaggio apostolico a Miseno con il diacono Festo e il lettore Desiderio.A Miseno, devono incontrare il diacono Sossio, bisognoso di aiuti e consigli. Ma Sossio viene arrestato, e poco dopo tocca anche a Gennaro e ai suoi amici. E' in atto la persecuzione ad opera dell'imperatore Diocleziano. I quattro esponenti cristiani sono condannati a morte: dovranno essere sbranati dagli orsi dell'Anfiteatro di Pozzuoli. Con loro, dovranno morire altri tre condannati: Procolo, Eutichete e Acunzo, tutti di Pozzuoli.
Ma per un contrattempo, l'esecuzione tra le fauci delle belve non può avvenire. E allora, i sette uomini saranno decapitati alla Solfatara. Qui si chiude il perimetro delle notizie storiche. Ma proprio qui cominciano le leggende e le tradizioni prima fra tutte, perchè non acclarata da alcun documento, quello che vuole una pia donna - forse la nutrice di San Gennaro- raccogliere nelle ampolline il sangue del martire. Da quel giorno dell'anno 305 ebbe inizio, tra storia e leggenda, la straordinaria vicenda di San Gennaro e del suo sangue, cui col passar del tempo sarà dedicato un culto di eccezionale profondità e coinvolgimento. E la devozione per San Gennaro è stata sempre collegata al suo sangue, raccolto nelle ampolle custodite nel Duomo di Napoli, insieme con il busto, entro cui sono raccolte le ossa attribuite al suo cranio. Il fenomeno della liquefazione si ripete nel sabato che precede la prima domenica di Maggio e il 19 settembre data in cui il calendario celebra il Santo.
Il corpo di San Gennaro fu sepolto nelle catacombe di Capodimonte, dopo esser rimasto per poco più di cento anni in un altro luogo, l'Agro Marciano, non esattamente identificato. Secondo parte della tradizione la traslazione delle ossa di S.Gennaro sarebbe passata per l'antica Via antignano al Vomero dove sarebbe avvenuto il primo prodigio non documentato.
Presso le catacombe cominciò la venerazione popolare per le ossa del santo, che progressivamente acquisì il ruolo di gran protettore della città. Ma il "riposo" delle ossa del martire era destinato a essere turbato più volte da avvenimenti clamorosi, come il trafugamento ad opera del duca longombardo Sicone, che riuscì a trasportare il corpo di San Gennaro, dopo averlo sottratto nottetempo alla sua nicchia, nella città di Benevento, di cui Gennaro era stato Vescovo.
Per 325 anni le ossa di San Gennaro restarono in Benevento, poi, in seguito a vicende politiche legate al re normanno Guglielmo il Malo, le spoglie furono trasportate nel sicuro rifugio del santuario di Montevergine.
Già allora (negli anni tra il 1100 e il 1200) si venerava l'icona di "mamma Schiavona", la Madonna di Montevergine. Dopo molti anni, nel 1480, le reliquie di San Gennaro, di cui s'era ormai perduta memoria certa, furono casualmente ritrovate sotto l'altare maggiore della Chiesa. A Napoli, la notizia stimolò il desiderio di riavere il corpo del Santo, che per tanto tempo era stato lontano e quasi dimenticato. Ci vollero però altri 17 anni, prima che le reliquie potessero tornare nel Duomo. Ciò avvenne il 13 gennaio 1497, dopo vivacissime schermaglie con i monaci di Montevergine, che si arresero di malavoglia all'ordine del loro superiore di restituire la cassa con le ossa di San Gennaro. La vicenda è raccontata dai bassorilievi de’argento del paliotto della cappella del tesoro. Riavvicinate alla testa e al sangue del Santo, quelle reliquie furono sistemate in una Cappella, il "succorpo", ricavata sotto il Duomo per volere del Vescovo Carafa. In tutto il tempo in cui le ossa si trovarono fuori Napoli, il culto di San Gennaro si era sviluppato e fortificato. Per secoli, quando la città si trovava in pericolo per motivi di ogni natura eruzione del Vesuvio, soprattutto, ma anche epidemie, terremoti, assedi di eserciti stranieri il popolo napoletano chiedeva che il busto d'oro e d'argento di San Gennaro e le ampolle col suo sangue fossero esposti e portati in processione. Così scrive Vittorio Paliotti: "San Gennaro e il Vesuvio, Il Vesuvio e San Gennaro, un binomio i cui due poli erano in antitesi, ma che nello stesso tempo sì integravano, perchè quando il Vesuvio era calmo, si supplicava San Gennaro di lasciarlo così, e quando il Vesuvio infieriva, si supplicava San Gennaro di rabbonirlo."
Ed è del 17 agosto 1389 la data del primo "miracolo" storicamente accertata. A Napoli, si succedevano le dominazioni: dai normanni agli svevi, dagli angioini al ramo durazzesco dei d'Angiò, ma il culto di san Gennaro restava come punto fermo nella vita della città. E oltre al popolo, gli stessi regnanti manifestavano grande ossequio e venerazione verso il patrono, probabilmente convinti, in questo, proprio dal tangibile consenso che il popolo manifestava verso il protettore. Fu il re Carlo II d'Angiò a disporre la realizzazione del busto d'oro e argento che custodisce le ossa del cranio, e fu Roberto d'Angiò a volere la teca, pur'essa d'argento, per conservare le ampolline col sangue. Ed era sempre la protezione dalle minacce del Vesuvio il maggior ufficio che Napoli aveva delegato a San Gennaro Nei giorni del miracolo sedevano in prima fila, in Chiesa, le cosiddette "parenti" di San Gennaro, donne di origine popolare, provenienti per lo più dai quartieri del Molo Piccolo. Le prime fra loro, in ordine di tempo, portavano il cognome "Ianuario", e questo bastò per convincerle e convincere gli altri di essere discendenti del santo Gennaro. Loro, le "parenti", potevano parlare al busto di San Gennaro, rivolgendogli implorazioni, esortazioni a non tardare nel fare il miracolo, frasi tenere, e anche qualche epiteto colorito e irriverente, che Matilde Serao definì "vezzeggiativi scherzosi". La processione, da quando fu istituita dall'Arcivescovo Giovanni Orsini, nel 1337, divenne e restò tale per molti secoli, la più importante cerimonia religiosa aperta alla città.
Nel sabato che precedeva la prima domenica di maggio, la statua del patrono veniva trasportata, con un lungo e affollato corteo liturgico in un'altra chiesa, scelta a rotazione tra le sette basiliche più importanti. Poi tornava in Duomo, da dove il giorno dopo ripartiva con un'altra solenne processione, detta "degli inghirlandati", perchè chi vi partecipava, doveva portare in testa una corona di rose e tenere tra le mani un ramoscello fiorito e una gabietta con uccellini. Una simbologia arrivata dal mondo delle antiche celebrazioni pagane di primavera, riutilizzate per un culto cristiano. Dal 1389, data del primo miracolo storicamente accertato, si decise di far seguire il busto dalla teca con le ampolle. E fu nel 1525 che il rapporto tra San Gennaro e la città divenne ancor più stretto e sentito: l'eletto del popolo chiese e ottenne che busto e teca col sangue, usciti dal Duomo, fossero portati in processione non in una chiesa ma in una piazza della città. Si consolidava così quel rapporto diretto e familiare che il popolo napoletano seppe stabilire col suo santo protettore. Dal 1800, invece, la processione di maggio lasciò cadere il contatto pieno col popolo e i quartieri cittadini, tornando ad avere come meta una chiesa, una sola e per sempre: Santa Chiara. E i "compatroni", da sei che erano all'inizio, mano a mano crebbero di numero, fino ad essere 51. 51 statue d'argento per altrettanti santi, elevati al rango di compatroni di Napoli su sollecitazione di Chiese, conventi, ordini monastici, privati cittadini. Resta ancora oggi una tenace scia di religiosità popolare a tener vivo il discorso sull'antico patrono, tra fede e religione. Quella scia che lungo un cammino sotterraneo e impalpabile nel lento giro d'un millennio e mezzo ha collocato San Gennaro al centro di un grandioso fenomeno di religiosità popolare e di un radicatissimo culto, tali da non avere uguali al mondo.


San Gennaro e le sue Parenti
di Paolo Jorio Il lento dondolio della testa accompagnato da un impercettibile movimento del corpo, mani dure, rugose, segnate dalla fatica che improvvisamente si protendono in avanti come nel vano tentativo di raggiungere qualcuno, un canto struggente che ritma la gestualità in un crescendo emozionante. Le voci si inseguono e riecheggiano tra gli afferschi del Dominichino e 52 busti d’argento, siamo nella Real Cappella del Tesoro, all’interno del Duomo di Napoli, ma se per un attimo provassimo ad astrarci dal luogo in cui ci troviamo e lasciassimo correre la fantasia potremmo immaginare, ascoltando questa nenia, di trovarci sulle antiche “rampe del Petraio” che dalla collina del Vomero portano sino a Chiaia, al mare di Napoli. Potremmo pensare di sentire il rumore della biancheria profumata sbattuta dal vento e messa lì, ad asciugare al sole, mentre le lavandaie intonano le villanelle. Oppure potremmo immaginare di essere in uno dei quartieri più popolari di Napoli, la Sanità, quando tutto lo spazio antistante il palazzo dello “spagnuolo”, disegnata nel ‘700 dall’architetto Luigi SanFelice diventa, soprattutto la vigilia di Natale, uno dei mercati più colorati e ricchi della città partenopea, ispirando i grandi artigiani del presepe napoletano del ‘600 e del ‘700. In queste voci che ascoltiamo all’interno della Real Cappella del Tesoro di San Gennaro, una delle più straordinarie testimonianze del barocco, sono racchiusi millenni della grande civiltà napoletana. Sono i cori delle “parenti” di San Gennaro ed attendono il miracolo del patrono di Napoli: lo scioglimento del sangue. A maggio ed a settembre, nei giorni del miracolo, siedono in chiesa in prima fila, possono parlare al busto di San Gennaro, gli rivolgono esortazioni a non tardare nel fare il miracolo, frasi tenere che Matilde Serao definì "vezzeggiativi scherzosi", ma soprattutto cantano.


La Processione
La Deputazione del Tesoro di San Gennaro, di concerto con la Curia, con il Comune di Napoli e la Regione Campania ha ripristinato, da quest'anno, l'antico e suggestivo cerimoniale della Processione del Miracolo di Maggio. Il cerimoniale prevede che il sabato che precede la prima domenica di maggio, una volta prelevati dalla cassaforte dell'altare maggiore della Cappella del Tesoro il busto di S. Gennaro e le ampolle contenenti il sangue, una processione composta da una banda musicale, dai carabinieri in alta uniforme, dall'Arcivescovo, dai prelati, dal sindaco di Napoli presidente pro tempore della Deputazione e dai Deputati, dal drappello d'onore dei cadetti della Nunziatella, dal servizio d'ordine dell'Ordine di Malta, dalle congregazioni che portano a spalla i busti d'argento dei compatroni e, ovviamente, dai fedeli si snodi tra le antichissime vie del centro storico di Napoli. Il percorso che si sviluppa tra via Duomo, Spaccanapoli, piazzetta Nilo, Piazza San Domenico Maggiore per giungere alla Chiesa di Santa Chiara sarà caratterizzato dall'antico rito del lancio dei petali di fiori dai balconi, che si affacciano lungo tutto il percorso della processione, abbelliti ed arricchiti come un tempo, dalle preziose coperte in raso e dagli arazzi. Una volta terminata la solenne funzione religiosa nella chiesa di Santa Chiara, il miracolo sarà annunciato, proprio come avveniva nel ‘700, dallo sparo dei cannoni di Castel Sant'Elmo dopo di che la processione si muoverà per fare ritorno al Duomo attraverso via San Sebastiano e via dei Tribunali. Anche il ritorno alla Cappella del Tesoro prevede che, dai balconi arricchiti dalle coperte più preziose, siano lanciati petali di fiori.
Il ripristino della processione di ;aggio, secondo i canoni dell'antico cerimoniale, si inserisce nel più ampio progetto di diffusione del culto di San Gennaro e di promozione delle straordinarie opere donate al Santo Patrono nel corso dei secoli, partito con la recente apertura del Museo del Tesoro, ma anche nell'importante progetto di riqualificazione turistica che le istituzioni si sono impegnate a sviluppare. La processione di maggio, infatti, dovrà nel tempo, diventare un appuntamento fisso, non solo dei fedeli legati al culto di San Gennaro, ma anche per i turisti, inserendolo nei pacchetti e negli itinerari turistici da proporre in Italia e all'estero.


Il Miracolo e la Cerimonia
In occasione della processione delle reliquie di San Gennaro, che avviene il sabato che precede la prima domenica di maggio, la Deputazione della Real Cappella del Tesoro, da quattro secoli, organizza il cerimoniale di tale evento. Nei primi anni del 700 l'architetto Ferdinando Sanfelice, su incarico della Deputazione, disegnò il cerimoniale inerente la formazione della processione che doveva scortare il Reliquiario: per prima c'erano le statue dei compatroni di Napoli, seguite dal Reliquiario, subito dopo, sotto il Palio le cui aste erano sostenute da valletti, al centro c'era il Cardinale Arcivescovo di Napoli, circondato dai Deputati che reggevano un cero nella mano destra. Malgrado le inevitabili trasformazioni dovute ai tempi e alle consuetudini, oggi la cerimonia è rimasta pressocchè immutata. La processione parte dalla Cattedrale per recarsi in Santa Chiara secondo le seguente disposizione: la banda musicale in testa, le insegne del Comune di Napoli e della Regione Campania, gli stendardi delle Congregazioni religiose e dei Comuni limitrofi, seguite dalle statue dei compatroni portate a spalla dai fedeli, quindi i seminaristi, l'imbusto di San Gennaro contenete le ossa del cranio, il molto reverendo Capitolo Metropolitano con Sua Eccellenza il Vescovo Vicario, quindi il Reliquiario on le ampolle del venerato sangue, seguito da Sua Eminenza Reverendissima il Cardinale Arcivescovo di Napoli accompagnato dal suo cerimoniere e i dodici membri della Eccellentissima Deputazione della Real Cappella del Tesoro di San Gennaro in rappresentanza degli antichi Seggi Napolitani: Portanova, Montagna, Nido, Capuana, Porto e quello del Popolo in rappresentanza della città con a capo il Presidente che è il sindaco di Napoli pro tempore, seguono le autorità cittadine, le associazioni cattoliche e i fedeli. La processione parte dalla Cattedrale alle ore 17,00 e si snoda per via Duomo, Via San Biagio dei Librari, via Benedetto Croce e giunge in Santa Chiara. Dai balconi sono tornati a pendere, come una volta, drappi di seta e coperte di raso e non mancano lanci di petali di rosa durante il percorso. Intensa è la partecipazione del popolo al quale si unisce una moltitudine di curiosi, turisti, fotografi, inviati di televisioni nazionali e straniere. Le implorazioni rivolte al Santo, le lacrime, i sospiri, gli evviva, i baci inviati dai bambini, i vecchi inginocchiati ai balconi, il suono delle campane, l'odore degli incensi, i segni di croce sono tutti segni che esprimono fede e speranza, simboli di una tradizione popolare semplice e sincera. Al ritorno, terminate le cerimonie religiose, il corteo passa per via Tribunali, piazza San Gaetano e attraverso via Duomo, fa ritorno in Cattedrale. Le ampolline del sangue vengono chiuse in apposita cassaforte, riaperta ogni mattina per otto giorni consecutivi in osservanza del culto del Santo.


L'arte e il Tesoro
Fra il 1600 e il 1700 la devozione e il legame di patronato fra il santo e la città dovevano concretizzarsi in due "istituzioni": la Deputazione e Cappella del Tesoro di San Gennaro, e l’Ordine Cavalleresco intitolato al santo e fondato dal re Carlo di Borbone nel 1738. L’origine della Cappella del Tesoro risale all’anno 1527, data in cui la città di Napoli- spopolata dalla peste –faceva voto di erigere un grandioso edificio come ringraziamento al santo patrono cui s'era rivolta per ottenere scampo e salvezza; ma solo nel 1601 gli Eletti dai Seggi cittadini di Capuana, Nido, Montagna, Porto, Portanova e Popolo ne avrebbero in realtà varato la costruzione in Duomo al posto della ormai angusta sede delle reliquie – il "Tesoro vecchio" -, sita in una delle torri di facciata, affidando il compito di seguire l’impresa a una "deputazione" di dodici membri, due per ogni seggio. Formidabile fu l’impegno che la città e la Deputazione – una volta ottenuto, nel 1605, l’assenso alla fondazione dal papa Paolo V – doverono infondere nella costruzione della cappella, eretta e decorata nel giro di neanche quarant’anni. Palese in tutti i documenti del tempo è una disponibilità finanziaria e un intento di "eccellenza", nella qualità delle opere e nella scelta degli artefici, che in questo arco di tempo – a Napoli – può forse essere confrontato soltanto a quanto era stato fatto e si andava facendo per mano dei priori della Certosa di San Martino. E’ per questo motivo ed anche per l’eccezionale assenza di sostanziali dispersioni d’un patrimonio già di per sé ricchissimo, che – proprio assieme alla certosa – la Cappella del Tesoro di San Gennaro costituisce l’esempio più alto e rappresentativo dell’arte barocca a Napoli, compiuto e dotato entro la prima metà del Seicento ma continuamente integrato e arricchito per tutta la durata del secolo e nel corso di tutto il Settecento. Il suo aspetto è perciò caratterizzato da un tipico e irripetibile affollamento di oggetti e di decori, di dipinti, di affreschi, di statue soprattutto e di preziosi, che subito s'impone alla fantasia del visitatore; al punto che, nel Settecento, uno dei tanti viaggiatori nella Napoli del "Grand Tour", il tedesco Volkmann, si diceva talmente colpito e sopraffatto dallo sfarzo, dal lusso e dalla quantità di decorazioni, di ori, di stucchi presenti in Cappelle, "che l'occhio da nessuna parte trova pace"; un aspetto che ancora a metà Ottocento l’acquerello di Giacinto Gigante colla scena del Miracolo dello scioglimento del sangue, conservato al Museo di Capodimonte, coglie a pieno nel trascorrere macchiato della luce sulla folla densissima e policroma dei devoti, delle statue di marmo, di bronzo, d’argento.
Il progetto dell’edificio – che è dunque il luogo per eccellenza dove le espressioni più alte dell’arte napoletana si incontrano col culto del santo – si deve all’architetto teatino Francesco Grimaldi, nominato nel 1608, che nella maestosa pianta centrale dominata da una grande cupola trasferì’ la sua ispirazione classicista e romana, basata sui prototipi di Bramante e Michelangelo. Nonostante che per l’ultimazione della Cappella e per la copertura della cupola dovessero passare ventott’anni (1636), e dieci ancora per la sua apertura al culto, già poco oltre il 1610 i Deputati effettuavano a Roma, "per la scarsezza che è in questa Città di maestri e artefici sufficienti come bisognano in una opera di tanta qualità", i primi sondaggi per reperire un artista in grado di ricoprire i vasti spazi di muratura di affreschi o addirittura – secondo un primo progetto – di mosaici. La scelta cadde inizialmente sul Cavalier d’Arpino (1616), il quale aveva già realizzato opere di questa natura nel massimo tempo della cristianità – la Basilica di San Pietro –ed era per altro ben noto a Napoli per i cicli a fresco realizzati alla fine del secolo precedente per la locale Certosa di San Martino: ma questi – dopo una prima discesa nel 1618 e la stipula del contratto – non diede seguito all’impegno preso. Nel 1619 fu allora contattato allo scopo il giovane Guido reni, astro della nuova pittura bolognese ed esperto frescante; ma anche il soggiorno di questi a Napoli (1620-21) – avversato sino alle minacce e all’omicidio d’un garzone dal pittore tardo-manierista Belisario Corenzio, detentore del monopolio delle imprese di decorazione nelle chiese locali ed esponente senza scrupoli d’una "mafia" artistica cittadina – non ebbe esito fortunato. Negli anni a seguire la Deputazione provò così a incaricare nuovamente il Cavalier d’Arpino, poi il napoletano Fabrizio Santafede – che lavorò in Cappella con Gessi e Battistello Caracciolo dal 1622 al 1626 -, poi addirittura- per un saggio di prova – l’intraprendente Corenzio col suo socio Simone Papa (1628-29); finché, rifiutato e rimosso tutto quanto era stato fin lì realizzato da questi pittori, non si deciderà nel 1630 ad invitare a Napoli l’altro artista bolognese Domenichino, autore a Roma di celebri affreschi in San Luigi dei Francesi e Sant’Andrea della Valle, la cui opera pittorica ancor oggi caratterizza l’aspetto dell’intero Tesoro. Sono di Domenichino, databili fra il 1631 e il 1638, tutti gli affreschi delle volte e delle lunette, raffiguranti – in base ai testi agiografici di Paolo Regio – le storie della vita e del martirio del santo, nonché quelli dei pennacchi, allusivi al patrocinio di san Gennaro sulla città, ed i dipinti su rame degli altari coi Miracoli e i due Martìri maggiori, programmati nel 1632 ma realizzati in realtà fra il 1636 e il 1641, e solo in parte; al punto che alla morte dell’artista il Martirio della fornace dovette essere affidato al Ribera, e l’incompiuto Miracolo dell’ossessa sostituito da un quadro analogo dell’altro pittore "locale" Massimo Stanzione.
Agli affreschi – e ai rami – Domenichino si dedicò con la consueta cura e lentezza, ospitato in un appartamento nel palazzo della Deputazione e compensato con 100 scudi per ogni figura intera, 50 per ogni mezza e 25 per ogni testa, ma avversato anche fieramente dai "concorrenti" Corenzio e Ribera, tanto da doversene fuggire per breve tempo a Roma nel 1634. Il risultato, ben leggibile oggi dopo i restauri del 1986-87, rappresenta l’ultima tappa, e la più matura, del classicismo di Domenichino e del suo "sistema" di decantazione delle emozioni entro l’ordinata struttura della "pittura di storia". Nei suoi ultimi anni egli lavorava agli affreschi della cupola, ma la decorazione di questa rimase interrotta alla sua morte, e la Deputazione decise così nello stesso anno di rinnovarne le parti già eseguite e di affidare ex-novo l’impresa ad un altro pittore emiliano che da qualche anno era attivo a Napoli, l’antico compagno di Domenichino e in seguito suo rivale a Roma – in Sant’Andrea della Valle – Giovanni Lanfranco. A Lanfranco si deve perciò il formidabile paradiso che oggi decora la cupola della Cappella, coll’Eterno al centro di schiere salienti di santi fra cui spiccano il Cristo, la Vergine e San Gennaro, e che l’artista realizzò con energia vorticosa nel breve giro di anni fra il 1641 e il 1643; esempio assai notevole di quel senso dello spazio infinito, dello sfondato, del movimento, di quella stesura delle superfici e delle masse a larghe falde che egli – prendendo spunto dalla tradizione correggesca – aveva messo al centro della sua particolare interpretazione del Barocco. Grande risalto, nell’ornamentazione della Cappella, ha però anche la parte riservata della scultura, alla plastica. Affidata in origine agli scultori di tradizione tardo-cinquecentesca Naccherino, D’Auria, Montani e Monterosso, fu soltanto dopo l’insoddisfacente tentativo di questi ultimi di realizzare in bronzo le prime tre figure dei Santi patroni per le nicchie della Cappella che la Deputazione – con una svolta pari a quella della scelta di Domenichino al posto dei vari Cesari, Corenzio o Santafede nel campo della decorazione a fresco – decise di avvalersi per essa nel 1638 del carrarese Giuliano Finelli, collaboratore a Roma del Bernini e al cui linguaggio assieme classico e barocco si deve infatti la grandiosa statua di San Gennaro al centro dell’abside, così come quelle, ai lati, di dodici compatroni. A queste, alle altre sculture in bronzo realizzate nella seconda metà del secolo da Fanzago, Mariniello e Vinaccia, e al formidabile cancello d’ingresso in ottone progettato dallo stesso Cosimo Fanzago (1628-65), si aggiungevano intanto, nel corso di tutto il Seicento e fino agli inizi del Novecento, e con un sistema ironicamente descritto dallo sbalordito forestiero Alexandre Dumas ("ogni confraternita, ogni ordine religioso, ogni parrocchia e persino ogni privato che tenga a far dichiarare un santo suo amico patrono di Napoli sotto la presidenza di San Gennaro, non deve che far fondere una statua d’argento massiccio del prezzo da sei a ottomila ducati e offrirla alla Cappella del Tesoro"), le cinquantuno altre statue in argento di santi patroni che caratterizzano in modo straordinario l’aspetto della Cappella e degli ambienti annessi. L’argento è in realtà l’altro grande protagonista dei prodotti commissionati per il Tesoro di San Gennaro; e d’argento sono qui i due primi reliquiari trecenteschi del busto e del sangue, voluti dai sovrani angioini, i paliotti degli altari – fra cui quello centrale con la Traslazione delle reliquie da Montevergine a Napoli, di Gian Domenico Vinaccia (1692-95) -, le lampade, i due grandi "splendori" – vere macchine per luminarie – realizzati da Filippo del Giudice grazie al contributo di Carlo di Borbone, le altre stupende statue a tutt’altezza di San Michele arcangelo (1691), di Tobia con Raffaele (1797) e dell’Immacolata 81628-1718) – opera di Lorenzo Vaccaro, Vinaccia, Sammartino, del Giudice e Treglia -, le croci, i candelieri, i putti, i turiboli, le giare e le "frasche" infine che, ad opera anch’essi dei più celebri argentieri, come Monte o Vinaccia, addobbano in particolare l’altar maggiore in porfido progettato dal Solimena, costato esso solo – fra il 1706 e il 1722 – quasi ventimila ducati.
Meno noti perché da tempo non esposti in Cappella, e non più usati per le celebrazioni o per addobbare – com’era uso – il busto del santo, ma non certo meno importanti sono infine i gioielli, i preziosi, anch’essi in parte legati, come gli argenti, a donativi fatti al Tesoro specie fra il Sei e l’Ottocento, ma questa volta soprattutto ad opera di sovrani ed esponenti della corte. Fra gli arredi liturgici, ad esempio, il raffinato calice in oro, diamanti e rubini commissionato da Ferdinando di Borbone a Michele Lofrano (1761), i candelieri pure settecenteschi in cristallo di rocca, la pisside in oro, brillanti, zaffiri, rubini e smeraldi, e il classicheggiante, enorme tronetto-baldacchino per l’esposizione del Santissimo offerti da Ferdinando II di Borbone nel 1831 e 1837, o infine l’ostensorio in argento e pietre preziose donato nel 1837 da Maria Teresa d’Austria. Fra gli "ornamenti" del Busto di San Gennaro, invece, la coloratissima mitra vescovile realizzata per la Deputazione nel 1713 dall’orafo Matteo Treglia in argento dorato, costellata da 3328 diamanti, 198 smeraldi e 168 rubini, o soprattutto lo spettacolare "collare", pur esso commissionato dai Deputatiall’orafo Michele Dato (1679) e consistente in origine in tredici maglie d’oro con diamanti, smeraldi e rubini, cui nel corso del Sette e dell’Ottocento dovevano aggiungersi preziosissime croci e fermagli in brillanti, rubini, zaffiri e crisoliti donati dai sovrani borbonici Carlo, Maria Amalia, Maria Carolina, Francesco I e Maria Cristina, e ancora da Giuseppe Bonaparte e da Vittorio Emanuele II di Savoia. Ma il discorso sui gioielli, e sui donativi reali, conduce quasi naturalmente a spostare l’argomento sul vincolo che doveva stringersi – oltre che fra la città – fra la corte e il santo patrono, e dunque sulla fondazione di quella seconda istituzione" legata alla figura e alla devozione di quest’ultimo, dell’Ordine cioè di San Gennaro. Nel Settecento, ritornata Napoli ad essere capitale di un regno autonomo, non poteva infatti sfuggire al primo dei sovrani della nuova dinastia, Carlo di Borbone, l’importanza di legarsi a un culto che era ormai divenuto parte integrante della vita cittadina, evento sacro, miracolo, cerimonia, ma anche – con le varie processioni di maggio, settembre e dicembre, con gli apparati festivi, le macchine e gli addobbi dei Seggi – momento spettacolare, luogo di aggregazione urbana, grande occasione di consenso popolare. Narra il d’Onofrj nel suo Elogio estemporaneo per la gloriosa memoria di Carlo III (1788) di come il "pio Monarca", richiesto d’accettare una dedica alla sua persona d’un volume dedicato alle pitture della Cappella del Tesoro, rispondesse "A mi S.Genaro nada pueda negarlo", al mio San Gennaro nulla posso negare; e di come, nell’anno delle sue nozze con Maria Amalia di Sassonia, "compreso da spirito di religione e di gratitudine, seppe rendere immortali, e vie più pubbliche e luminose le glorie" del suo Benefattore San Gennaro con l’istituzione "di un real ordine militare, e cavalleresco." L’ordine venne concepito come dinastico e " di Collana", e cioè legato strettamente alla discendenza diretta dei Borboni delle due Sicilie e molto selettivo, limitato al numero massimo di sessanta membri scelti fra quelli che potessero vantare i quattro quarti di nobiltà; e conferito infine a coloro che "si segnalavano per la fedeltà al loro Sovrano e Gran Maestro, e per il loro fervore nell’accrescimento di Nostra Santa Religione".
Agli esperti dunque di gratitudine al santo patrono e alle prescrizioni, tutte o quasi di carattere religioso, che si leggono negli Statuti di fondazione, si accompagnava un’attenzione estrema al decoro e al fasto "cortese" dell’Ordine e dei suoi Cavalieri, tale da prevedere – sin negli statuti stessi – un corredo di abiti, manto, fascia, croce, cingolo e collana di grandissima ricercatezza, e i cui più antichi esempi sono da annoverare perciò fra i migliori prodotti delle "arti decorative" napoletane del Settecento. In queste vesti i sovrani borbonici e qualcuno dei grandi aristocratici ammessi nell’Ordine vollero inoltre farsi ritrarre dai maggiori artisti dell’epoca, dando vita ad esiti pittorici il più delle volte di straordinaria qualità, e comunque ad altrettanti penetranti "spaccati" della vita di corte fra Sette e Ottocento. Il ritratto di Ferdinando IV fanciullo di Mengs (1760) o quello dello stesso Ferdinando adulto di Camuccini (1818), conservati rispettivamente nei musei di Capodimonte e di Palazzo Reale, e meglio ancora quelli del principe di Tarsia Ferdinando Vincenzo Spinelli del Solimena -–pure a Capodimonte – (1741), e dei principi di Tocco Leonardo e Restaino, del Liani (1780), nei quali la descrizione puntuale dell’Ordine e dei suoi accessori costituisce evidentemente quasi lo scopo irrinunciabile del ritratto stesso come manifestazione di massima nobiltà e decoro, consentono infatti da un lato di leggere il trapasso della pittura napoletana dal Rococò appunto dell'ultimo Solimena – rutilante di luci, sete, metalli ed ori – al neoclassicismo del secolo seguente, e dall’altro di fissare in altrettante efficaci immagini riccamente vestite di "drappo d’argento" e d’ "amoer porporina seminato di gigli d’oro", di "rossi nastri ondeggiati", di croci smaltate e ingioiellate col motto "in sanguine foedus", le tappe d’un rituale mondano e di corte, e però osservato "in memoria del martirio del Santo" patrono.


I doni dei Sovrani
Nel tesoro di San Gennaro sono presenti straordinari capolavori destinati sia al culto liturgico, sia agli arredi della Cappella di San Gennaro e dell'edificio della Deputazione. Numerosi e dal valore inestimabile sono i doni dei sovrani di tutta Europa. Non c'è stata dinastia che abbia regnato a Napoli o che sia passata per la città che non abbia lasciato una traccia indelebile di sè attraverso doni preziosi donati a San Gennaro. A partire dagli angioni che, con Carlo D'Angiò, tra la fine del 1200 e l'inizio del 1300 donarono il busto dedicato al Santo Patrono di Napoli e il reliquario del sangue. Il busto, che viene esposto sull'altare maggiore della Cappella per lunghi periodi dell'anno, è in oro e argento con incastonate pietre preziose e samlti raffiguranti le insegne araldiche del casato. Nel corso dei secoli i doni dei sovrani hanno ancor di più impreziosito il già ricco tesoro di San Gennaro. Dal valore inestimabile è, per esempio, il collare di San Gennaro iniziato nel 1679 e completato nel 1879 con tredici grosse maglie in oro massiccio superbamente lavorate, che sostengono gioielli, pietre preziose spille e croci donate da quasi tutte le dinastie o le case nobili europee. Anche la mitra per il busto di San Gennaro è dal valore insetimabile. Realizzata da Matteo Treglia in oro e argento dorato e tempestata da ben 3894 pietre preziose, smeraldi, rubini e diamanti, fu donata dalla Deputazione, dal popolo napoletano e da Carlo III di Borbone. Non solo sovrani, però, ma anche papi hanno lasciato la testimonianza del loro passaggio per Napoli, come papa Pio IX che venne in esilio nella città partenopea durante i moti mazziniani scoppiati a Roma e che per ringraziare i napoletani per il suo soggiorno volle regalare a San Gennaro uno splendido calice in oro zecchino lavorato a mano costato, nel 1849, ben 3000 ducati.